lunedì 14 giugno 2010

That's why egyptians called them gods

Mezzogiorno e un quarto. Un caldo africano. Gli studenti vengono rigurgitati fuori dalla facoltà inondando il cortile di chiacchiere a base di psicocazzate. Mi guardo intorno, e un curioso articolarsi della folla attira la mia attenzione. Mi avvicino, e ne ho conferma. Appena fuori dalla porta di ingresso a Psycho 1 le masse studentesche si fendono in due. Invece di uscire compatti in un flusso unico, si articolano ordinatamente in una doppia corrente come per non calpestare qualcosa che non riesco a vedere. Sono troppo lontana. Mi avvicino ancora. Capisco.

C’è il tigrone. Non ha un nome preciso, ognuno lo chiama come gli pare, ed è una cosa che ho sempre apprezzato. In questa facoltà abbiamo una colonia felina regolarmente registrata presso il comune di Padova a nome del dipartimento. Se ne occupa soprattutto una collega della didattica insieme al supporto più o meno collaborativo di altri uomini e donne di buona volontà.

Siccome son gatti, in perfetta coerenza di specie non c’è niente di definitivo che possiamo dire di loro. Non sappiamo esattamente quanti sono: numero fluttuante. Non sappiamo se siano imparentati fra loro o se abbiano scelto di condividere l’esperienza comunitaria per pure affinità elettive. Non sappiamo nemmeno come chiamarli, e infatti non gli abbiamo dato un nome, perché, insomma, sono adulti, e fra loro si chiameranno un po’ come cazzo gli pare. Quanto a noi, ci cagano a malapena se chiediamo timidamente il passo alla guida dell’auto quando tracimano della loro imperiale indolenza sulla rampa del garage, figuriamoci se si sognano di rispondere a un richiamo nominale. Come se il gatto fosse quel genere di animale che ti permette di scegliere qualsiasi cosa che lo riguardi senza il preventivo imprimatur della sua cancelleria…

Ed è così che va anche ora, di fronte a Psycho 1. Decine e decine di ragazzini che sciamano verso un panino ristoratore e che fanno ala in mezzo al cortile per non disturbare il tigrone. Che s’è sdraiato là sulla grata – perché metallica e quindi fresca – e si lecca una zampa passandosela dietro l’orecchio, con quella precisione chirurgica propria solo della creature intimamente consapevoli del loro regio diritto di stare al mondo, e sideralmente incuranti dell’eventualità che altri organismi senzienti possano avanzare analoghe pretese. Lo capisco dalle occhiatine che tira in giro, tra una passata di lingua rasposa e l’altra. Dissimula, finge di essere preso dalle sue occupazioni, si vede bene che non vuole dare soddisfazione. Ma dentro di sé gli urge una certa questione piuttosto pressante che volendo si potrebbe riassumere così: ma voialtri siete sicuri che non c’avete proprio un cazzo di meglio da fare?

5 commenti:

  1. Sarò stato dieci minuti con lo sguardo fisso nello sguardo di quel gatto. Era un gioco che mi divertivo a fare col mio cane. Lui non lo reggeva.Alla fine abbassava gli occhi. Oppure girava lo sguardo altrove. Riuscivo a metterlo in imbarazzo. Chissà cosa gli passava per la testa. Il gatto no, è differente. Non che tu gli sia indifferente. No. Di sicuro però non gli sarai mai padrone. (testina di lupo. ciao)

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  2. sì ma i gatti sò popo stronzi eh.
    le gatte poi, nun ne parlamo.

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  3. http://www.youtube.com/watch?v=cSorJ-SMO4M

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  4. è proprio questo che mi piace dei gatti, la consapevolezza della loro superiorità e il mandartelo a dire senza troppe romanticherie. Per esempio leccandosi il sedere davanti ai tuoi occhi mentre stai consumando il pranzo domenicale.
    come disse l'etologo: "la marmotta è l'essere più inutile della terra, se ne sta tutto il giorno ferma a guardare il sole"
    rspose la marmotta: "l'etologo è l'essere più inutile della terra, se ne sta tutto il giorno a fissare me"
    Sostituisci la marmotta col gatto ed è fatta.

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  5. Insomma, quasi Velvet, ma con gli occhi blu :-)

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