giovedì 27 maggio 2010

Signs

Giovedì pomeriggio sono andata in spiaggia. Siccome era il primo giorno di sole dai tempi della battaglia di Marengo, con i piedi nella sabbia mi son sentita euforica come una ragazzina. Ero l'unica a crederci. Lì a Sanremo tutti portavano ancora maglioni e giubbotti. Ma io ero in vacanza per cui, ‘fanculo, ho messo il gonnellino con gli zoccoletti e me ne sono andata tutta sola a limonare col tramonto. C’era sole, ma tirava anche un discreto venticello. Allora mi sono seduta con le spalle contro una rete che mi dava un vago senso di protezione, e dopo dieci minuti, senza che me ne accorgessi, è spuntata una vecchietta un po’ surreale con una busta di plastica legata in vita, e mi ha fatto un sorriso trasparente come se ci incontrassimo sempre in quel punto a quell'ora fin dall'origine del mondo. E’ stato bello. Una di quelle cose da piccolo paese, in cui il sorriso va di default perché te lo installano sulla macchina col software di base, per cui dopo non hai bisogno di scaricarti l’ultimo upgrade di merda per ricordarti come si fa a coordinare le labbra in un moto di simpatia che non costa niente e magari alleggerisce perfino il peso di qualche inutile gravame interiore. Ho pensato: ecco, mi piacerebbe diventare una vecchia così. Una che non ha paura della parola vecchia, per cominciare, che già quella non è una roba da ridere. E che si gode la vita fatta di quello che c’è. La spiaggia. Il mare. Il primo sole della stagione. Minuscole immensità. Che ci perdiamo con l’idea che ci sia qualcosa di meglio da fare.

Poi ho chiuso gli occhi e ho cominciato ad andare dietro ai miei pensieri, e dopo un po’ l’ho persa di vista. Alla fine il venticello s’è fatto termicamente impegnativo e allora mi sono tirata su e ho cominciato a camminare tornando molto lentamente verso la scala da cui ero scesa. Passeggiavo parallela al mare che era poco distante, e a un certo punto mi sono resa conto che stavo incrociando di nuovo il cammino della vecchia. Io andavo da nord a sud, lei faceva il contrario, ma con i piedi in acqua. Camminavamo in parallelo, una verso l’altra, separate solo da un striscia di sabbia di una decina di metri. Una bella metafora della vita. Una donna di mezza età che ad ogni passo si avvicina a una vecchia. Una vecchia che viene incontro a una donna di mezza età. Alla fine si incrociano, si guardano, si superano, e continuando a camminare si allontanano l’una dall’altra. Perché per il momento è stata solo un’illusione del tramonto. C’è ancora tempo prima che la più giovane prenda il posto dell'altra. O che l'altra se la venga a prendere. O almeno così se la racconta. Perché sono parole con un suono denso e consolatorio. E perché si vede che lo stadio in cui non le peserà farsi chiamare vecchia non è ancora arrivato. Chissà quale dei due arriverà per primo. Ché in certe questioni la corretta tempistica è tutto.

Con la metafora della vita in testa m’ha preso la curiosità di girarmi e osservare l’impronta dei miei passi. Mi sono voltata e ho visto una cosa che - avessi avuto solo due svanziche di prontezza – avrei fotografato all’istante come sintesi perfetta di un certo andazzo delle cose. Era un percorso storto, sghimbescio, irrecuperabile nella sua distonia, ma assolutamente regolare nella sua mancanza di senso. Le orme del piede destra colpivano la sabbia ortodosse ed equidistanziate come un soldatino in marcia nòppiunòpi, e quelle della sinistra sbarellavano con altrettanta regolarità di 40 centimetri almeno, affondando nella sabbia come se ogni passo fossi svenuta, o avessi collassato, o qualcuno m’avesse dato uno spintone della madonna, o avessi spazzato via un milione di granelli come una sciancata. Un’andatura da ubriaca, da pazza scellerata. Non ce lo vedete il portato metaforico voi? Io si, e per una buona ragione: perché se me l’aveste chiesto prima di voltarmi, avrei giurato che quella spiaggia l’avevo attraversata dritta come un fuso.

E non è la prima volta nella vita che mi capita di pensare che quasi tutti sanno meglio di me quello che sono, e spesso me lo dicono. Perfino i miei piedi. E’ la mia testa che non c’ha mai capito un cazzo. Cosa insisto a darle retta non lo so.

8 commenti:

  1. non so quanto la cosa sia casuale e quanto voluta, ma la pozza d'acqua nella foto ricorda con una certa precisione la sagoma di un uomo (testa, spalle). più o meno, un uomo che bacia la terra dove quei piedi camminano, o i piedi stessi. se hai voglia di continuare nelle metafore, accomodati; ma se la cosa può esserti di minimo conforto, l'ultima volta che invece che alla mia testa ho dato retta a tutt'altro, ho preso una solenne inculatura. uno a uno.

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  2. mah... io da quando ho smesso di dare retta a tutt'altro e ho usato la testa, le inculature sono comunque aumentate.

    Bella la pozzanghera, ha ragione Ganfione. Sembro io se fossi davvero lì, e tu pure.

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  3. Non me ne sarei accorta mai. Del profilo, dico. E non solo. Guardando di nuovo la foto, che avevo scelto solo perché mi piaceva trascurando i dettagli, mi sono accorta che la donna porta una cavigliera, che avevo anch'io su quella spiaggia, e che ho perso in mezzo alle lenzuola di una stanza d'albergo l'altroieri, dopo essere passata attraverso tutto l'amore del mondo, aver fatto il giro della galassia, ed essere rientrata sulla terra, frastornata e confusa.

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  4. E in effetti, che l'ascolto della testa o in alternativa del cuore preservi dalle inculature è abbastanza illusorio. Le inculature dipendono più dalle aspettative che coltiviamo, indipendentemente dalle parte del copro in oggetto. E qui si ritorna all'amore incondizionato, appunto.

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  5. Leggendo questo post mi sono chiesta se per caso non sia possibile che sia stata te in una vita precedente (a parte il fatto che mi piacciono le cavigliere) (ms)

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  6. Non è un'ipotesi da trascurare. Secondo me la reincarnazione collettiva è una figata pazzesca.

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