lunedì 28 giugno 2010

Vite di uomini illustri

Io il caso Brancher non l'ho seguito. Magari è davvero innocente come uno scolaretto, e magari no, in ogni caso non sta a me dirlo. Lo accerterà il tribunale di competenza nei tempi e nei modi dovuti.

Cosa che incidentalmente, di fronte a simili eventi, è anche l'unica risposta che avrei voluto udire dalla labbra di un inquisendo ministro della Repubblica degno di questo nome. Che il degno nome in oggetto sia quello di ministro o quello di repubblica non importa, fate voi, a me va bene uguale. In un paese normale dovrebbero essere degni entrambi, e parecchio, ma siccome in alto a destra vedo le Alpi, in basso lo Ionio, tutto intorno Tirreno e Adriatico, mi duole dirlo ma temo fortemente di trovarmi in Italia. Grasso che cola se si riesce a tirar su almeno uno dei due dal troiaio dove abitualmente giace, e a dargli una rasentada che gli conferisca un aspetto minimamente presentabile.

E' un concetto talmente indicibile? Tacere in pubblico, a meno che non si tratti delle proprie assunzioni di responsabilità. Affrontare una convocazione con dignità anche se la si ritiene ingiusta, e difendersi come possibile. Oppure tacere in pubblico. Rispettare le leggi e i tribunali e recarsi nei luoghi preposti come dovremmo fare tutti noi se ci capitasse una cosa simile.  Altrimenti tacere in pubblico. Non cadere nel ridicolo. Non sfogonare con toni e modalità accettabili solo in appendice a un pranzo di Natale particolarmente pesante e nel discreto alveo degli affetti familiari. In caso contrario tacere in pubblico. Ancora tacere. Parlare solo se interrogati. E altrimenti tacere. Certamente non scendere fino all'ultimo gradino del ridicolo, quel lenzuolino minuscolo con cui non occulterai la gigantesca pochade di merda in cui ti sei cacciato: ve la prendete con me perché l'Italia ha perso in mondiali! che te lo fa immaginare in lacrime, con la faccia sporca, il grembiulino strappato, che tira la gonna all'insegnante. Signorina maestra! Signorina Maestra! Pierino se la prende con me perché ha perso i Mondiali! Da cui poi è conseguenziale  figurarsi la Gelmini con l'occhialetto di traverso che si inginocchia a soffiargli il naso e lo consola: ma Aldo, com'è possibile! Proprio tu che ogni giorno porti in cartella quel po' po' di incarichi istituzionali che quasi non ci passi dalla porta! Pierino, t'avverto: se disubbidisci un'altra volta io oggi pomerigio chiudo il cortile e tu i mondiali non li giochi più neanche dipinto! Restituiamo l'acconto a Murdoch e  le telecamere di Sky te le carichi tutte tu a braccia fino in cantina! Siamo intesi?

Che figurine patetiche da presepe italiota. Ministri....Una parola che viene dalla stessa radice latina di minor. E infatti ministrum vuol dire: servo. Sarebbe Servo dello Stato, nelle intenzioni. Ma c'è che alle volte il cammino delle parole parte dall'etimologia con le migliori intenzioni di non imboccare svincoli lungo la strada, e finisce per farsi certi giri panoramici assolutamente imprevedibili che alla fine - vedi? - ti restituiscono una perla semantica proprio là dove meno te l'aspetti.

martedì 22 giugno 2010

Drawing by numbers

Centomila bambini all'anno figli del coito interrotto. Addirittura. I nati complessivi pare siano poco più di cinquecentomila. Quindi un quinto del totale nasce non schedulato. Va detto che vengono inclusi anche i frutti di tutte le altre pratiche fallite di contraccezione, o almeno questo mi pare di intuire, perché sfido chiunque a comprendere la logica del calcolo illustrato nel primo paragrafo dell'articolo.

Ed è questo che fa pensare. Un numero così imponente, va da sè, non l'hai certo rilevato one-by-one, anche perché trascrivendo una a una le informazioni su 500.000 nascite - che vuol dire mettere in mezzo un milione tondo di genitori - per avere il tempo di aggregare i risultati avresti dovuto metterti all'opera ai tempi del profeta Ezechiele. Quindi è frutto di una stima. Hai preso il tuo campioncino di 1000 coppiette di passaggio al consultorio - se va di lusso - e hai fatto le tue proiezioni.

Io la statatistica l'ho studiata solo quel minimo che m'hanno obbligata a fare, e anche lì con tutta la reticenza possibile. Però una cosa l'ho capita. E' pericolosissima, perché è delicata. C'è una quantità impressionante di cose da mettere in conto per evitare di dire delle solenni minchiate. Proprio ieri leggevo di un tipo in gamba che dice: la statistica è il feticcio della nostra civiltà. Siccome sono numeri, tendiamo ad attribuirgli un arcano potere di verità oggettiva che non possiedono e non hanno mai preteso di avere. I numeri non significano niente. I numeri non parlano. Le statistiche sono solo valori aggregati che creiamo noi secondo una logica che, se sbagliata, ne inficia completamente il valore. E invece abbiamo questa fede perversa che ci spinge a credere che siccome un'idea si presenta in specie di numero invece che di concetto, allora vuol dire che possiede un maggior grado di verità e di oggettività. Puttanate.

Per cui questa è una di quelle statistiche che mi fa pensare. Perché malgrado l'ampia variabilità probabilistica che caratterizza la disciplina, malgrado i sottili distinguo che bisognerebbe sempre avere cura di premettere quando si comunica un risultato del genere, non senti nessuno commentarla in termini sensati, cheneso, premettendo un sembra che, appare probabile, qualora risultasse confermato da successive verifiche. Macchè. Si spara nel mucchio un numero alto e fragoroso che faccia un botto impressionante, si intervista un esperto embedded al problema, e si comincia a manganellare a raffica con l'artiglieria dialettica pesante: è un'enormità,  un fenomeno imponente,  un disastro, una generazione di infelici, la fine del mondo. Questo lo dico per il tema in oggetto, ma con minime variazioni terminologiche sono considerazioni mutuabili a qualsiasi contesto.

E appena la polvere si deposita al suolo e torna un minimo di calma, passa il rappresentante commerciale a venderti qualcosa per impedirti di fare la stessa fine. Perché anche di fronte alla peggiore catastrofe c'è sempre una soluzione. Basta comprarla.

Lo status di blogger implica acidità, facciamocene una ragione

Ho una compagna di scuola che non sentivo da almeno 30 anni. Mi ha trovata su facebook, e in piena coerenza con il genere di contatti intensi e vitali che i social network garantiscono, ci siamo scambiate due messaggi di cordiali saluti e poi morta là.

Adesso però ce l'ho tra gli amici, per cui se scrive un commento in bacheca io ovviamente la leggo. Ha due figli adolescenti che cominciano gli esami di maturità. Un paio di giorni fa ha scritto una cosa tipo: oddio che ansia! Quali tracce potrebbero uscire? Si dice in giro l'ecologia, la guerra, i 150 anni della Repubblica!

Ci ho pensato un po' su.  Mi sono detta: rifletti. Non la vedi da 30 anni e le hai mandato solo un saluto. Non siete così intime. Non lo fare. Sta' zitta. Tieniti le tue salaci ironie per te. Taci, madonna santa, taci!

Adesso facciamo un test: secondo voi, conoscendomi, ce l'ho fatta? Sono riuscita a tenere la bocca chiusa? Prima di continuare a leggere, pensateci. Datemi una risposta ponderata.

Fatto? Bravi. E' quella. L'escaltion di violenza verbale con cui ho tentato di autointimorirmi per arginare il reflusso gastoesofageo dei 150 anni delle Repubblica non è servito a niente. Le ho rifilato un commento scherzoso sperando che avesse un po' di senso dell'umorismo.

Ora come l'abbia presa onestamente non lo so. Però non mi ha risposto. E ha cancellato il suo intervento e ogni commento collegato.

Peccato, eh? Peccato davvero. Un'altra splendida relazione naufragata tra le acque perigliose di facebook.

mercoledì 16 giugno 2010

Umorismo incensato

Qui c'è del genio. Ammettetelo.

martedì 15 giugno 2010

Men at work

Il cantiere di fronte alla facoltà è cresciuto come un fungo durante l'inverno e ha raggiunto l'altezza della biblioteca, che pure è al quinto piano. Ormai quando mi affaccio alla finestra ho l'impressione di poter toccare gli operai con un dito. Rispetto delle norme di sicurezze, cosa lo dico a fare? Zero. Zompettano come le allegre comari di Windsor sò e zò per i ponteggi, quando a me va il caffè di traverso solo a guardarli ininterrottamente per più di 3 minuti.

Poi è estate, fa un caldo assassino. Loro all'apparenza se ne fregano. Hanno addosso l'elmetto giallo per puro rispetto delle convenienze d'immagine - anche perché se ti spiaccichi da quell'altezza l'unica cosa che può fare per te un elmetto è aggiungere una calda nota di colore alle tue viscere sparse in giro - e per il resto non indossano quasi niente. Calzoncini corti sdrucitissimi sul coscione, torso nudo, e talmente tanti peli per singola unità operaia che non ne metteresti insieme altrettanti nemmeno tosando a zero un'intera legione di Amici di Maria De Filippi in pieno delirio ormonale.

Sono talmente rappresentativi di una certa iconografia da sbarco, che non faccio altro che immaginarmeli mentre si scambiano un'occhiata birichina, appoggiano lentamente gli strumenti da una parte, e all'improvviso attaccano a muoversi in sincrono così.

Editor del menga

Apprezzo il fatto che gli amici di blogspot arricchiscano il loro parco template.

Ma perché cacchio le foto si allineano solo a sinistra malgrado il ricorso agli appositi comandi di centratura?

Sono cose che indispettiscono l'utenza.

P.S. Vabbè, un minuto dopo l'ho capito da sola. Ma ormai il post è andato, e sono quelle cose ineluttabili a cui conviene rassegnarsi.

lunedì 14 giugno 2010

That's why egyptians called them gods

Mezzogiorno e un quarto. Un caldo africano. Gli studenti vengono rigurgitati fuori dalla facoltà inondando il cortile di chiacchiere a base di psicocazzate. Mi guardo intorno, e un curioso articolarsi della folla attira la mia attenzione. Mi avvicino, e ne ho conferma. Appena fuori dalla porta di ingresso a Psycho 1 le masse studentesche si fendono in due. Invece di uscire compatti in un flusso unico, si articolano ordinatamente in una doppia corrente come per non calpestare qualcosa che non riesco a vedere. Sono troppo lontana. Mi avvicino ancora. Capisco.

C’è il tigrone. Non ha un nome preciso, ognuno lo chiama come gli pare, ed è una cosa che ho sempre apprezzato. In questa facoltà abbiamo una colonia felina regolarmente registrata presso il comune di Padova a nome del dipartimento. Se ne occupa soprattutto una collega della didattica insieme al supporto più o meno collaborativo di altri uomini e donne di buona volontà.

Siccome son gatti, in perfetta coerenza di specie non c’è niente di definitivo che possiamo dire di loro. Non sappiamo esattamente quanti sono: numero fluttuante. Non sappiamo se siano imparentati fra loro o se abbiano scelto di condividere l’esperienza comunitaria per pure affinità elettive. Non sappiamo nemmeno come chiamarli, e infatti non gli abbiamo dato un nome, perché, insomma, sono adulti, e fra loro si chiameranno un po’ come cazzo gli pare. Quanto a noi, ci cagano a malapena se chiediamo timidamente il passo alla guida dell’auto quando tracimano della loro imperiale indolenza sulla rampa del garage, figuriamoci se si sognano di rispondere a un richiamo nominale. Come se il gatto fosse quel genere di animale che ti permette di scegliere qualsiasi cosa che lo riguardi senza il preventivo imprimatur della sua cancelleria…

Ed è così che va anche ora, di fronte a Psycho 1. Decine e decine di ragazzini che sciamano verso un panino ristoratore e che fanno ala in mezzo al cortile per non disturbare il tigrone. Che s’è sdraiato là sulla grata – perché metallica e quindi fresca – e si lecca una zampa passandosela dietro l’orecchio, con quella precisione chirurgica propria solo della creature intimamente consapevoli del loro regio diritto di stare al mondo, e sideralmente incuranti dell’eventualità che altri organismi senzienti possano avanzare analoghe pretese. Lo capisco dalle occhiatine che tira in giro, tra una passata di lingua rasposa e l’altra. Dissimula, finge di essere preso dalle sue occupazioni, si vede bene che non vuole dare soddisfazione. Ma dentro di sé gli urge una certa questione piuttosto pressante che volendo si potrebbe riassumere così: ma voialtri siete sicuri che non c’avete proprio un cazzo di meglio da fare?

mercoledì 9 giugno 2010

Words of wisdom

A great deal of intelligence can be invested in ignorance when the need for illusion is deep

Saul Bellow

E se questa non vi sembra profonda, ragazzi, vuol dire che sulla profondità la pensiamo in maniera davvero diversa.

martedì 8 giugno 2010

Chicche in grado di risollevarmi l'umore

Leggere di un elefante a spasso per le vie di Zurigo mi ha messo allegria. Sarà che gli svizzeri si portano dietro una serie di luoghi comuni piuttosto in conflitto con la configurazione morfologica di un elefante, specie un elefante a passeggio sulla via dello struscio, ma che ne so? M’è parso un modo stupendo per annunciare un martedì scintillante dopo un lunedì piuttosto merdoso. Senza che il lunedì avesse particolari colpe, o il martedì speciali meriti assolutori. Non posso dire sia dipeso dagli eventi insomma. E’ più una cosa che ha a che fare con i vagheggiamenti interiori della mia psiche beccheggiante tra i marosi. Ché io, prima di giungere a intravedere certi picchi zen, ce n’ho di pagnotte da mandare giù.

Comunque l’articolo ha un paio di perle davvero notevoli. Una è quella che dice che Sabu è riuscita a fuggire in un momento di confusione. Perché ragazzi, va bene tutto – le tasse, le corna che prudono, i figli che si drogano - ma a che cazzo stavate pensando se v’è sfuggito il dettaglio di un elefantessa in marcia verso il centro storico di Zurigo? Ho capito che alle volte uno s’alza preso dai suoi pensieri, ma c’è un limite a tutto. Un elefante che dirazza verso l’autostrada e passa il casello pistonando sui suoi zamponi invece di ritirare il tagliando dall’apposita fessura, è dura confonderla con una bisarca!

E poi c’è il passaggio che accenna al fatto che alla fine della gita la povera Sabu è stata catturata dalla polizia. Che anche quello spinge a farsi delle domande. Tenuto conto che l’ultima volta che hanno visto degli elefanti sulla linea delle Alpi credo sia stato ai tempi di Annibale - e anche lì col binocolo, perché mi pare che passarono sul versante francese - la municipalità elvetica in questi casi che tipo di protocolli segue? Perché anche con un vasto spiegamento di forze, bloccare un elefantessa e ammanettarla è un’operazione logistica di una certa complessità. Per cui che vuol dire esattamente che è stata catturata dalla polizia? Le hanno fatto telefonare al suo avvocato? L’hanno tradotta in commissariato per farle il numero del poliziotto buono e quello cattivo? Da come la vedo io mi pare molto più probabile che si siano limitati ad andarle dietro mantenendosi a prudente distanza e tirandole qualche banana ogni tanto, e abbiano telefonato al domatore chiedendogli cortesemente di venire a riprendersela. Una roba che onestamente senza tirarmela tanto potevo fare anch’io. Che non sono poliziotta. E manco svizzera, a Dio piacendo.

lunedì 7 giugno 2010


Comunque se siete molto scoglionati tipo me stamattina, questo è davvero un bel modo per farsela passare.

E se non conoscete ancora Hap e Leonard vi consiglio di colmare la lacuna prima possibile.

Non credo che poi starete meglio. Però vi sentirete senz'altro in buona compagnia.

Piccole speculazioni del lunedì


Esiste il silenzio delle parole. E il silenzio delle emozioni. Il silenzio delle parole, a saperlo usare, comunica più di una sinfonia. E’ perfino improprio chiamarlo silenzio. Silenzio di che? Certi silenzi scavano buche, riempiono vuoti abissali, ti prendono lì dove sei e ti frullano in certe dimensioni metafisiche che prima di quell’attimo non sapevi neppure che esistessero. Il silenzio è l’unica condizione implicita all’intimità.

Il silenzio delle emozioni? Anche quello scava buche, ma non riempie vuoti e neppure ti avvicina alle dimensioni metafisiche. Non è difficile da riconoscere, perché brucia quando ti avvicini. Le persone prudenti in genere fanno un passo indietro. Le persone ambiziose intuiscono il potenziale di rinforzo positivo che gli verrebbe dall’insistere accanto a quel calore, e se hanno fegato resistono finché è possibile continuare senza riportare danni permanenti. Le persone più vuote che vive invece ci sentono la vertigine. S’affacciano, e ogni momento è buono per dirsi che si tireranno indietro. Ma non sono loro ad avere l’ultima parola e non sono mai loro a decidere.

Perché le persone vuote sono ricattabili. Oltretutto non le puoi uccidere, lo sanno tutti. Sopravvivono, ed è questo che ne fa le vittime ideali. Se non c’è cadavere, non c’è reato.

martedì 1 giugno 2010

Braccia rubate al Grande Fratello


- Cara, ti ricordo che in biblioteca è proibito l’uso del telefono cellulare.

Faccia stralunata, occhio pallato, espressione ai limiti dell’indicibile, linguaggio corporeo interamente devoto all’atto di trasmettere paraverbalmente l’assoluta inconcepibilità della richiesta appena udita.

- Ah si? E perché?

E questi sono quelli che hanno superato i test d’ammissione obbligatori.

Figurati gli altri.